Mario Lattes, Frammenti di identità
Mario Lattes, La Galleria del Ponte. Inaugurazione Mercoledì 21 Settembre 2011 ore 18, apertura fino al 12 Novembre
A MARIO MIO MAESTRO DI VITA
Se l’eco di quello che avviene nell’universo
mondo arriva a bucare il buio del nulla, sai
già che continuo a seguire la strada che mi hai
indicato.
Questa mostra nella tua città, odiata e amata,
prigione e libertà, per ricordare, come credo
ti sarebbe piaciuto, il decimo compleanno
della tua morte.
Caterina
La vita in maschera. Il colore che è la maschera. Mario Lattes, scomparso dieci anni fa, è un flâneur visionario, una sensibilità smisuratamente tragica, eppure smisuratamente sorvegliata. Nella consapevolezza, insieme sollievo e singulto, che «quel che tarda avverrà». Facendo rotolare giorno dopo giorno i dadi ricevuti in sorte, di volta in volta meditando il biblico rebus, i giorni del mondo chi li potrà contare?
Mario Lattes è una solitaria scommessa, solitaria perché irriducibile a qualsivoglia carovana, tribù, scuola. Uno spirito errante. Un borghese di ventura che semmai riconoscerà come humus la Praga di Ripellino, il passaporto magico che è: un segno di riconoscimento, un codice segreto per color che sanno, che frangono i confini, che si sospingono negli «interminati spazi» di là della leopardiana siepe.
Collezionista di «notti nere», Mario Lattes (se ne scorra la galleria, se ne scrutino le orme, le ombre, gli squartamenti d’anima) vi avrà incontrato guitti e automi, golem e alchimisti, artisti di strada (come gli appartengono «…i
cortili della capitale boema con un organetto, nella cui parte anteriore splendeva un teatrino invetriato»), soprattutto il signor K. (l’autoritratto del 1959 lo evoca, lo interpreta – addirittura lo invoca?), fra gli «inquilini rispettosi» («L’inquilino rispettoso» è un racconto dello scrittore, collezionista, editore, non solo pittore, torinese) che una mattina vengono arrestati, pur non avendo colpa.
Alunno maiuscolo del Diletto, Mario Lattes. Come lo avrebbe salutato il Montale di «Stile e tradizione», là dove lamenta: «In Italia pochi si figurano quel che può essere un dilettante di grande classe; e metteremo anche questa
tra le riprove della nostra scarsa civiltà, non solo letteraria. […] In tempi che sembrano
contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume».
«Un mercante di Parigi mi diceva: “Vous êtes trop Monsieur…” e aveva ragione. Quel “Monsieur” è l’epigrafe sulla mia tomba d’artista». E’ un frammento autobiografico di Mario Lattes, la confessione efferatamente educata (c’è, c’era, era annidato, acquattato, nel suo eccesso di educazione, un sicuro stiletto) di un destino superiore e quindi
frainteso, uno scampolo di tempo perduto come – siamo nella Ville Lumière – lo omaggiò Monsieur Proust: «Un tempo i camerieri del re erano reclutati fra i gran signori, mentre ora i gran signori sono soltanto camerieri».
Si sta nell’universo di Lattes come in un carillon. Accordato e ri-accordato di continuo, inseguendo, corteggiando,
vagheggiando l’«inconnue», la madre («Non ho mai conosciuto mia madre. Ho avuto numerose matrigne»). Lei, la presenza diafana che sorveglia i giochi nel parco, l’occhio così vigile così invisibile del pic nic, il sortilège che l’enfant-medium esigerebbe, l’apparizione sul divano, esile ed enigmatica come una promessa…
Di atelier in atelier. Perché Mario Lattes è di una curiosità che lo orienta verso Schiele come verso Bacon, verso Utrillo come verso Kokoschka, magari suggerendogli un girotondo in più dattorno a Odilon Redon, alle sue «amniotiche» creature o pre-creature.
La deformazione simbolista come vessillo, dando scacco alla banale realtà, di una banalità che genererà la banalità del male; il sogno come unguento, tale la sua impermeabilità all’umiliazione; l’arte come isola del tesoro, dominio misterioso, mistica, esoterica mappa, arcobaleno dopo il diluvio, riconsacrazione («Channuccà», l’olio che celebra l’ebraica festa delle Luci).
Un «Monsieur» sotto la Mole, Mario Lattes. Sospeso, cioè, fra evasione e obbedienza, conradianamente attore del cortocircuito fra anarchia e ordine, fra gerarchia e diserzione.
Fra i testimoni di «una speciale igiene», come la decifrò Carlo Mollino: «…di giorno lavorare in grigio (maggior fiducia si ispira così al cliente piemontese) e di sera invece… potremmo sceglierci ognuno un cliente fantasma, pieno di deferenza e di rispetto per la nostra misteriosa professione, e ci darebbe commissioni di fantasia».
Mario Lattes, la sua officina, il suo antro, la sua bottega, il suo fondaco, il suo bazar. Una fisarmonica di souvenirs, di ossessioni, di scaffali, di manichini, di «questioni» che nei millenni ad ora incerta riappaiono.
Arredando e ri-arredando il «vecchio studio» immemore della classicità casoratiana, ma rappresentazione, intuizione, epifania di un mondo capovolto, eppure non ripudiabile.
Scontando un’«inettitudine» che infine non è resa, ma uno smisurato abbandono alle radici, una lunga, inestinguibile fedeltà, nel solco di K.: «Anche se la redenzione non giunge, voglio però esserne degno in ogni momento».
Bruno Quaranta
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