Lectio magistralis di Haruki Murakami Un piccolo falò nella caverna

Lectio magistralis di Haruki Murakami Un piccolo falò nella caverna

Premio Lattes Grinzane 2019

Haruki Murakami

vincitore sezione La Quercia

Lectio magistralis

Un piccolo falò nella caverna

(traduzione di Antonietta Pastore)

 

©  2019 Haruki Murakami
Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata / All rights reserved. Reproduction prohibited.

 

Scrivere narrativa, di questo vi parlerò oggi. Potrei affrontare il problema del riscaldamento globale, o quello delle armi nucleari, ma forse l’argomento che conosco meglio, in maniera più concreta e dettagliata, credo proprio che sia il modo di scrivere un romanzo.

L’idea di scrivere mi è venuta per la prima volta quando avevo ventinove anni. Era il 1978, quindi da allora ne sono passati quarantuno. Fino a quell’età, non ci avevo nemmeno provato. Adoravo leggere, da quando sono entrato alla scuola media sprofondavo nella lettura di opere letterarie appena avevo del tempo libero, e leggevo per ore come trasognato, ma l’idea di poter essere io l’autore di un libro non mi sfiorava nemmeno. Naturalmente mi è successo di pensare che sarebbe stato bello, riuscire a scrivere qualcosa, ma ero convinto di non averne la capacità.

Il fatto è che alla mia giovane età adoravo autori come Balzac, Dostoevskij, Dickens, Franz Kafka, e non era concepibile che qualcuno come me potesse mai essere alla loro altezza. Era una cosa del tutto evidente, quindi non nutrivo il desiderio insensato di diventare uno scrittore.  Un romanzo era qualcosa che potevo leggere traendone grande piacere, non qualcosa che potessi creare io, questa era la mia sensata opinione nei confronti della letteratura.

Oltre a leggere, mi piaceva moltissimo ascoltare musica, soprattutto musica jazz, collezionavo con fervore dischi su dischi. Così all’età di ventiquattro anni ho aperto una specie di jazz-bar. A quell’epoca ero già sposato, sia mia moglie che io lavoravamo, così abbiamo cominciato a mettere da parte dei soldi, abbiamo chiesto prestiti in banca, ai nostri genitori, agli amici, a destra e a manca, tanto da raggranellare una somma sufficiente ad aprire un piccolo locale in una zona periferica di Tokyo. In questo locale ho istallato un pianoforte, e nei fine-settimana offrivo performance live di giovani musicisti. Per quasi dieci anni ho condotto questa vita, che a modo suo è stata un’esperienza divertente. Il lavoro quotidiano comportava una grossa parte di fatica fisica, l’obbligo di saldare i debiti mi pesava, ma ero giovane e pieno di energia, e per di più potevo ascoltare dal mattino alla sera la musica che più mi piaceva.

Appartengo alla generazione che nella seconda metà degli anni Sessanta ha conosciuto forti movimenti rivoluzionari e dato vita al fenomeno della contro-cultura, e anche per questo motivo, dopo essermi laureato, non ho voluto trovare un impiego in un’azienda. Ovviamente non pochi dei miei compagni di corso hanno abbandonato il look alternativo − via capelli lunghi e barbe − hanno indossato giacca e cravatta, e si sono fatti assumere in qualche grande impresa. Quanto a me, nonostante non avessi partecipato con particolare entusiasmo alle contestazioni studentesche, non avevo alcuna propensione, una volta calmatesi quelle rivolte temporanee, a farmi docilmente incorporare, come nulla fosse, nell’ordine sociale costituito e diventare un ingranaggio del grande capitale. Nella misura del possibile, mi sono sforzato di vivere come individuo, secondo la mia logica personale, con coerenza, senza tener conto delle aspettative sociali, ed è quello che cerco di fare ancora oggi.

È a questo scopo che avevo aperto un locale jazz, e visto che dal punto di vista economico funzionava piuttosto bene, conducevo una vita abbastanza stabile. Ed ecco che a ventinove anni, in primavera, all’improvviso mi è venuta voglia di scrivere un romanzo.

Chissà perché, ho avuto la sensazione che sarei riuscito a creare qualcosa. Non capolavori come quelli di Balzac o Dostoevskij, naturalmente, no… ma forse me la sarei cavata a raccontare a modo mio una storia. Può darsi che l’esperienza di vita accumulata avesse generato e nutrito dentro di me qualcosa che valeva la pena di far conoscere.

Peccato che non avessi mai neanche provato, a scrivere un libro, quindi non sapevo assolutamente cosa raccontare, né in che modo. Sono partito da zero, alla lettera. Ad ogni modo, dopo circa sei mesi ero riuscito a creare una storia che assomigliava a un romanzo, e a quel punto ho spedito il manoscritto a una casa editrice. Risultato: una rivista letteraria mi ha assegnato un premio per scrittori esordienti. Credo proprio di avere avuto molta fortuna, in questa vicenda. Ricevere un premio per la prima opera che scrivevo in vita mia!

Quando il romanzo uscì, se ne parlò molto. Dopo sei mesi ne erano state vendute trentamila copie. Un numero straordinario per un autore esordiente. Il titolo era Ascolta la canzone del vento. All’età di trent’anni, bene o male ero diventato uno scrittore.

Per due o tre anni ho scritto continuando a gestire il mio locale, ma svolgere al tempo stesso due lavori era veramente una faticaccia, così ho venduto il bar per dedicarmi a tempo pieno alla scrittura. Certo era un peccato abbandonare un’attività commerciale che stava andando a gonfie vele, e gli amici non smettevano di dirmi: “Lascia perdere, il mestiere di scrittore non dà nessuna sicurezza”, ma da parte mia avevo un solo desiderio: scrivere romanzi. Ero ancora abbastanza giovane da poter pensare: “Se non ci riesco, vuol dire che ripartirò da zero”.

Sono passati quarant’anni dalla pubblicazione di quel mio primo romanzo, ma da allora il mio modo di scrivere fondamentalmente non è cambiato. Non le opere in sé, che sono evolute in molti sensi, ma il metodo, che più o meno è sempre lo stesso.

Quale metodo usino altri scrittori non lo so. Per quel che mi riguarda, penso che la mia scrittura abbia diversi aspetti caratteristici. Il più importante, è il fatto che non stabilisco un piano prima di iniziare un nuovo romanzo. Nella maggior parte dei casi, comincio col buttare giù alcune pagine. In questa fase, non ho quasi idea di quale sarà la trama della storia, non ci ho ancora pensato. Ma non ha importanza, basta che descriva le scene e le immagini che si formano nella mia testa man mano che si manifestano. Vanno davvero tutte bene. Scrivo quello che mi viene in mente. L’importante è che si tratti di cose che affiorano in modo del tutto spontaneo. Cose che emergono in maniera naturale dal profondo di me, come l’acqua sotterranea sgorga in superficie diventando una fonte.

Ad esempio, posso scrivere un testo così:

“Nella primavera del suo ventiduesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita. Fu un amore travolgente come un tornado che avanza inarrestabile su una grande pianura. Spazzò via ogni cosa, trascinando in un vortice, lacerando e facendo a pezzi tutto ciò che trovò sulla sua strada, e dietro non si lasciò nulla. Poi, senza aver perso nemmeno un grado della sua forza, attraversò il Pacifico, distrusse senza pietà Angkor Wat e incendiò una foresta indiana con le sue sfortunate tigri. In Persia si trasformò in una tempesta del deserto e seppellì sotto la sabbia un’esotica città-fortezza. Fu un amore straordinario, epocale. La persona di cui Sumire si era innamorata aveva diciassette anni più di lei ed era sposata. E come se non bastasse, era una donna. È da qui che tutto cominciò, ed è qui che tutto (o quasi), finì.”

Non so bene neanch’io per quale ragione e a che scopo, fatto sta che un giorno ho concepito questo testo. Così mi sono seduto alla mia scrivania e l’ho scritto, così, tutto d’un fiato. A volte mi capita di essere travolto da un impulso di questo tipo.

Mi viene cioè il desidero di trasformare in forma letteraria un’immagine che ho dentro di me, semplicemente. Poi, una volta scritto il testo, mi calmo; lo stampo e infilo il foglio in un cassetto. Nel mio studio ci sono diversi cassetti nei quali sonnecchiano provvisoriamente molti di questi brani “difficilmente utilizzabili”, roba che ho buttato giù sotto la spinta di un impulso irrefrenabile.

Poi un bel giorno, all’improvviso, come se col passare del tempo qualcosa fosse fermentato, o come fa il vino quando invecchia, uno di quei fogli “difficilmente utilizzabili” comincia a prendere vita nel mio studio. Lo tiro fuori dal cassetto, e parto da lì per iniziare a scrivere una storia. Concretamente, il testo che ho appena letto è il primo paragrafo del libro intitolato La ragazza dello sputnik. A quel punto non era più un testo “difficilmente utilizzabile”, ma svolgeva un ruolo fondamentale in quanto incipit di un romanzo.

Quando ho iniziato a scriverlo, tuttavia, tutto quello che sapevo, in quanto autore, era che la giovane donna che si chiamava Sumire era la protagonista della storia, e amava alla follia una donna più grande di lei − niente di più. A parte questo, non avevo ancora in mente nemmeno una vaga idea della trama. E naturalmente neanche un finale. Comunque, usando il mio intuito, partendo da una pagina quasi bianca, sono andato avanti a sviluppare la vicenda rapidamente, foglio dopo foglio. Avevo la convinzione che lì dentro si nascondesse una storia da raccontare, ed era il requisito essenziale.

Il lungo romanzo L’uccello che girava le viti del mondo ha origine da un racconto intitolato L’uccello-giraviti e le donne del martedì. Il primo paragrafo di questo racconto suona così:

“Quando quella donna mi telefonò ero in cucina, mi stavo preparando un piatto di spaghetti. Erano quasi cotti, alla radio suonavano La gazza ladra di Rossini, la musica perfetta per quell’operazione, e io l’accompagnavo fischiando”.

Queste righe le avevo scritte di getto seguendo un’improvvisa ispirazione, poi come al solito le avevo infilate in un cassetto. Insomma avevo ritagliato un breve passaggio, un po’ come quando si riprende una scena con una video-camera e la si conserva in archivio per calcolare il metraggio. Molte persone hanno l’abitudine, quando si svegliano, di annotare quello che hanno sognato, e io avevo fatto un po’ la stessa cosa. Senza uno scopo preciso.

Molto tempo dopo, quel paragrafo era fermentato tanto bene, che è diventato l’incipit del racconto L’uccello-giraviti e le donne della domenica. L’ho pubblicato su una rivista, e successivamente l’ho inserito in una raccolta di racconti. Passati altri anni, l’ho sviluppato in un romanzo lunghissimo: L’uccello che girava le viti del mondo. In conclusione, un semplice paragrafo ha preso la forma di un racconto, poi, trascorso altro tempo, è gonfiato fino a diventare un lungo romanzo. In questo senso, si può quindi dire che abbia fatto una fermentazione in due fasi.

Questo genere di cose mi succede molto spesso. Un’idea improvvisa mi spinge a scrivere un breve passaggio e mette in moto una serie di reazioni chimiche che lo fanno crescere, un grado alla volta, fino a prendere una forma più solida. Io tengo d’occhio tutto il processo e lo seguo costruendo in modo naturale una storia. L’essenziale, per me, è che questa storia abbia spontaneità. Perché se per caso non l’avesse, mancherebbe di forza di persuasione. Non riuscirebbe a far vibrare il cuore dei lettori.

Facendo una digressione, a proposito del primo paragrafo del racconto L’uccello-giraviti e le donne del martedì, all’epoca della pubblicazione sono stato pesantemente attaccato da un critico letterario. “È una situazione irrealistica”, aveva scritto.

“Un uomo giapponese a mezzogiorno non se ne sta da solo in cucina a cucinare spaghetti o non so cosa”. D’accordo, era la sua opinione, ma io cosa ci potevo fare? In realtà, a me succede spesso di prepararmi da solo un piatto di spaghetti. E non so perché, ma accade anche che proprio quando la pasta è da scolare, squilli il telefono. Sul serio.

Comunque sia, a me le storie piace raccontarle così. Cioè crearle liberamente, senza avere in testa un progetto. Procedo incalzato dalla curiosità di sapere come andrà a finire. E sono convinto che anche i lettori andranno avanti, una pagina dopo l’altra, per trovare risposta alla stessa domanda: “E poi cosa succede?” Se l’autore, fin dall’inizio, stabilisse la trama e il finale, scrivere un romanzo non sarebbe affatto divertente. Per lo meno per me funziona così. Non sentirmi legato da una qualsivoglia scaletta, dalla logica o dall’abitudine, non essere limitato dalla necessità di preservare l’armonia del progetto, per me è fondamentale.

Perché ho questo bisogno di libertà?

Il fatto è che più si è liberi, più agevolmente si riesce ad accedere al territorio del proprio inconscio, e in questo consiste il pregio di scrivere un romanzo senza alcun vincolo, senza concepire una trama fin dall’inizio. Perché penso che il fine ultimo del lavoro di uno scrittore, o in termini più generici di un artista, sia scendere nel profondo di sé. Cioè calarti nel labirinto del tuo inconscio, nel luogo più recondito e buio. Così facendo, riuscirai ad approdare finalmente alla tua vera storia. Non a una narrazione costruita nella tua testa secondo le leggi della logica, ma a quella che hai intuito e percepito col cuore. E se riuscirai a raccontarla nel modo giusto, potrai comunicare con lo spirito di altre persone a un livello molto profondo. Nel romanzo è insito questo meraviglioso effetto benefico. Noi non siamo esseri totalmente soli: ecco cosa mette in luce una buona storia, questo caldo, tranquillo, e anche naturale sentimento di solidarietà che ci lega a livello inconscio.

Quando ho iniziato a scrivere, non ero ovviamente consapevole di tutto questo. Col passare degli anni, però, con un certo numero di romanzi alle spalle, mentre andavo creando un mio proprio stile letterario, sono giunto gradualmente a comprendere, in modo forte e concreto, quanto sia fondamentale per uno scrittore sentirsi libero, e anche a qual punto gli sia necessario provare un sentimento di vasta solidarietà con i lettori.

Prendiamo il romanzo La ragazza dello sputnik. Ho scritto un breve passaggio riguardo a un tornado e l’ho messo in un cassetto. Ecco, penso che a partire da quel momento sia iniziato il processo di fermentazione. Cioè ho iniziato a far sprofondare sempre più giù, nella mia coscienza, l’immagine di quel tornado. Finché è arrivata sotto il livello di consapevolezza, negli abissi dell’inconscio, dove col tempo si è mischiata con diversi altri requisiti primari, ha acquisito una fertile natura narrativa, per risalire poi, finalmente, alla superficie della mia coscienza. A quel punto non mi sono lasciato sfuggire l’occasione, ho raccolto ciò che stava galleggiando e vi ho dato la forma di un romanzo.

Naturalmente, non è che tutte le cose che ho scritto e poi messo in un cassetto riescano poi a fermentare felicemente. Anzi, in realtà la maggior parte restano dimenticate lì dentro. Solo una piccola parte vengono ripescate. Non saprei dire in anticipo però quali alla fine saranno utilizzate e quali no. Da parte mia, posso solo aspettare tutto il tempo necessario perché questo risultato si verifichi.

Perché la cosa veramente fondamentale, è lasciare che trascorra il maggior tempo possibile. E di solito ne passa davvero molto, prima che si produca una reazione naturale. Occorre avere molta pazienza.

In linea di massima, di tutte le cose che hanno un grande significato in questo mondo, non ce n’è quasi nessuna che non richieda il trascorrere di una grande quantità di tempo.

L’importanza di sentirmi libero, più che la letteratura, credo che me l’abbia trasmessa la musica. È possibile che la mia scrittura abbia tratto forte ispirazione dall’improvvisare tipico del jazz. Si parte da un tema, e lo si sviluppa seguendo il proprio estro. Ascolto questo genere di musica, la cui libertà mi ha sempre affascinato, fin da giovanissimo. Quindi nutro il forte desiderio di provare lo stesso piacere quando scrivo. Credo che questa sia una delle cose fondamentali che ho imparato dalla musica.

Un’altra cosa è il ritmo. Il ritmo giusto, quello che riesce a mandare avanti il racconto. A volte semplice, a volte complesso, e anche, ogni tanto, capace di scuotere l’anima come una magia. In un romanzo è un elemento imprescindibile, quanto lo è nella musica. Per quanto bello sia lo stile e avvincente la storia, se manca un ritmo vigoroso e azzeccato, voltare le pagine per la maggior parte dei lettori diventerà una fatica. Quando scrivo, ho sempre bene in mente l’importanza del ritmo. Non smetto di chiedermi se ho trovato quello giusto per il libro cui sto lavorando.

Infine c’è la melodia, quella che in conclusione resta profondamente impressa nel cuore del lettore. In un romanzo, sarà un paragrafo straordinario che spontaneamente ci viene voglia di citare. Un bel passaggio che ci avrà dato una forte emozione. A questo punto, però, si pone la questione del talento innato. Forse la capacità di comporre una melodia è qualcosa che abbiamo in noi dalla nascita, non possiamo svilupparla dal nulla, per quanto ci sforziamo. Difficilmente si potrà dire che tutte le meravigliose melodie create da Mozart e da Schubert siano frutto dell’impegno e dell’esercizio. Eppure, tendendo attentamente l’orecchio alla melodia che si cela dentro di noi, esercitandoci a tirarla fuori, potremo alzare notevolmente il livello del nostro talento. Ci vorrà del tempo, ma vale la pena di provare.

Questi tre fattori − la libera improvvisazione, l’importanza del ritmo, e nella misura del possibile una bella melodia che animi la scrittura −, io li ho presi dalla musica. In questo senso, vivere per quasi dieci anni lavorando con la musica, probabilmente è stato per me un ottimo allenamento a diventare un romanziere. Per lo meno, la musica mi è stata di grande aiuto nel formare il mio stile letterario.

Come ho detto prima, non so quali aspetti la mia scrittura abbia in comune con quella di altri romanzieri. Tutto quello che posso affermare, è che ogni autore deve creare un suo stile personale unico. Non esiste un “modo standard di scrivere romanzi”. Ogni persona conduce una vita diversa, di conseguenza ogni scrittore avrà necessariamente uno stile diverso. E ogni stile letterario dovrà avere una fonte di rifornimento originale. Quindi non credo che quanto ho appena detto riguardo al mio metodo si possa applicare ad altri autori.

Ciononostante, proprio perché ogni romanziere ha un suo stile originale, si possono trovare nell’atto stesso di scrivere alcuni fondamentali elementi comuni. Il più importante, per usare parole semplici, penso che sia “l’originario senso di fiducia nei confronti del racconto”. Il romanzo è venuto sviluppandosi negli anni e nei secoli passando attraverso molte prove, e per gli esseri umani è una forma espressiva indispensabile, qualcosa in cui possono riporre fiducia, di questo dobbiamo essere consapevoli. Se non si ha questo genere di rispetto, non si può scrivere un libro che tocchi corde profonde nell’animo dei lettori.

L’origine del romanzo − cioè del raccontare storie −, risale alla notte dei tempi, all’epoca in cui gli esseri umani abitavano nelle caverne. Provate a chiudere gli occhi e a immaginare di vivere a quell’epoca.

Quando il sole tramonta, la terra sprofonda nelle tenebre. Il mondo diventa totalmente buio, alla lettera. È un posto pericoloso, dove vagano belve provviste di zanne e artigli acuminati.

Per sfuggire a quelle belve, insieme ai vostri compagni vi rifugiate in una caverna, stretti gli uni agli altri, e trascorrete così la lunga notte. C’è un piccolo fuoco che arde. Serve a scaldare, e a tenere lontani gli animali feroci. Il cibo scarseggia cronicamente e la fame non vi dà mai tregua.

Ed ecco che a un certo punto un uomo inizia a raccontare una storia. È sempre lo stesso, di solito, l’uomo che racconta. Perché lo sa fare meglio di tutti. Gli altri stanno a sentire, attenti, le orecchie tese a quello che dice.

D’altronde sulla terra non esiste ancora nulla che si possa chiamare svago. Quella storia permette loro − anche solo per un momento − di dimenticare la paura e la fame. Il narratore probabilmente sta improvvisando. I suoi compagni che lo ascoltano si lasciano coinvolgere dalla vicenda, ogni tanto fanno delle domande, o dei commenti. E ogni volta il narratore, in accordo alla loro reazione, a poco a poco modifica il fluire del racconto.

E a un certo punto si ferma.

“E poi cosa succede?” chiederanno in molti.

“Il seguito ve lo racconto domani”, risponde il narratore. E tutti si dispongono a dormire. Mentre nel cuore pensano e ripensano quietamente alla storia che hanno appena sentito.

Probabilmente, un tempo, la stessa scena si è ripetuta in tutte le caverne del mondo. In Europa, in Giappone, in Africa, in Medio Oriente… ovunque esistevano caverne simili, tenebre simili, e probabilmente lo stesso tipo di storie venivano raccontate allo stesso modo. E da quel tipo di situazione è venuto formandosi nei secoli il mezzo espressivo del romanzo. La narrazione che era solo orale si è avvalsa dei simboli grafici ed è diventata un racconto che si poteva scrivere, poi, dopo l’invenzione della stampa, ha preso l’aspetto di una pubblicazione. Attualmente molte persone leggono romanzi su uno schermo, in formato elettronico. Eppure la storia che viene narrata lì, anche se gli strumenti che utilizza sono cambiati, sostanzialmente ha la stessa struttura delle storie che venivano raccontate intorno al fuoco. E noi romanzieri siamo i discendenti di quei narratori nelle caverne.

Lunghe e profonde tenebre, un piccolo fuoco di legna, diverse persone che nel loro cuore diventano una cosa sola. Dimenticare la paura e la fame, anche per un breve periodo… sostanzialmente è qualcosa che fino a oggi non è mutato. Naturalmente, in confronto ai tempi antichi, il mondo è diventato un luogo molto più luminoso. Tanto che ormai è difficile trovare un posto dove faccia davvero buio. Eppure, per quanto chiara sia adesso la notte delle città, le tenebre sono sempre lì, sempre presenti. “Nella vera notte buia dell’anima, sono sempre le tre del mattino”, ha scritto in un saggio Scott Fitzgerald. Ed è proprio a questo genere di tenebre che io mi riferisco.

Sia nei tempi antichi che al giorno d’oggi, abbiamo sempre bisogno di quei piccoli falò, in grado di illuminare il buio, che sono le storie. Di quel genere di luce che probabilmente può offrire soltanto il romanzo.

Per quarant’anni, tenendo a mente quei falò, ho continuato a scrivere senza interruzione. Se con le storie che ho scritto sono riuscito, anche solo un pochino, a illuminare gli angoli oscuri di tante caverne in tanti posti del mondo, e se potessi continuare a farlo anche d’ora innanzi, non ci potrebbe essere per me gioia più grande.

Grazie a tutti.

 

©  2019 Haruki Murakami
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